Trent’anni fa san Giovanni Paolo II istituì la Giornata Mondiale del Malato per sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie cattoliche e la società civile all’attenzione verso i malati e verso quanti se ne prendono cura. Così scriveva Levinas, un pensatore ebreo del secolo scorso:
Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro, l’invocazione all’altro.
Quando una persona sperimenta nella propria carne fragilità e sofferenza a causa della malattia, anche il suo cuore si appesantisce, la paura cresce, gli interrogativi si moltiplicano, la domanda di senso per tutto quello che succede si fa più urgente. Numerosi ammalati, durante questo tempo di pandemia, hanno vissuto nella solitudine di un reparto di terapia intensiva l’ultimo tratto della loro esistenza, certamente curati da generosi operatori sanitari, ma lontani dagli affetti più cari e dalle persone più importanti della loro vita terrena. Anche recentemente, in parrocchia, abbiamo celebrato dei funerali di persone ricoverate, certamente accudite dal personale sanitario, ma che da 20 giorni non riuscivano ad incontrare i propri familiari. Un dramma che si unisce al dramma. Senza ombra di dubbio, anche nella nostra Isola, sperimentiamo la fatica della sanità pubblica e i disagi che si creano quando una persona ha bisogno di urgenti interventi e analisi mediche. Per non parlare delle file estenuanti al Pronto Soccorso: la percezione di un sistema che non riesce a far fronte a tutte le urgenze e alle criticità che vengono a crearsi improvvisamente. A tal proposito ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale del malato:
Benediciamo il Signore per i progressi che la scienza medica ha compiuto soprattutto in questi ultimi tempi; le nuove tecnologie hanno permesso di approntare percorsi terapeutici che sono di grande beneficio per i malati; la ricerca continua a dare il suo prezioso contributo per sconfiggere patologie antiche e nuove; la medicina riabilitativa ha sviluppato notevolmente le sue conoscenze e le sue competenze. Tutto questo, però, non deve mai far dimenticare la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità. Il malato è sempre più importante della sua malattia, e per questo ogni approccio terapeutico non può prescindere dall’ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia.
Anche in questo frangente può essere importante guardare al faticosissimo lavoro dei medici in questi anni segnati dalla pandemia: medici, infermieri e professionisti sanitari che operano nelle strutture, come pure medici di medicina generale e pediatri, operatori dell’assistenza domiciliare, farmacisti, che sono presenti capillarmente sul territorio. Tutti svolgono non solo un fondamentale e irrinunciabile ruolo sanitario, ma anche sociale. Diventa sempre più apprezzabile quell’atteggiamento di cura che non disunisce mai l’aspetto umano da quello sanitario, anzi, che cura il corpo e rincuora lo spirito, in una vicinanza umana che illumina le giornate della persona malata: è ciò che desideriamo trovare quando la salute vacilla e le preoccupazioni per la fragilità nostra e delle persone che vogliamo bene si fa più insistente. Anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua patologia.
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